Il nome Servigliano si fa risalire a Publio Servilio Rullo, tribuno, il quale possedeva terreni proprio qui: Servilianus, proprietà di Servilius. Databili intorno al 29 a. C. i resti visibili ancora lungo il tratto di strada provinciale Matenana. Durante il Medioevo la gente di Servigliano si sposta in posizione elevata rispetto agli antichi stanziamenti romani e all’attuale incasato tardo settecentesco.
Questa zona resta un latifondo fino ad età longobarda e viene inglobata dai monaci dell’Abbazia di Farfa dopo la sconfitta di Carlo Magno. Sul legame tra questo castrum e Fermo rimangono documenti che ne testimoniano lo stretto rapporto e la fedeltà che la popolazione rinnovava periodicamente al Vescovo della città. Oggi, le sole tracce ancora visibili dell’antica struttura architettonica di Servigliano sono alcuni brevi tratti della cinta muraria medievale.
L’attuale zona abitata era frazionata tra diversi nobili e la parte conosciuta come San Gualtiero veniva ceduta nel 1450 al castello di Servigliano dall’Abate di Farfa (dal 1969 giochi medievali e un avvincente torneo cavalleresco rievocano la vicenda del generoso dono fatto alla comunità dall’Abbazia farfense).
Nel XVIII secolo la collina del medievale castello di Servigliano comincia a franare in maniera inarrestabile a causa delle infiltrazioni di acqua nel terreno, ciò comporta l’esodo degli abitanti sin dal 1758. Solo nel 1771 un chirografo papale dà l’autorizzazione alla popolazione di spostarsi.
Ci si spostava dunque in pianura, in un luogo dove l’arch. Bracci definisce e disegna quello che è ancora oggi l’impianto urbanistico di Servigliano. La sua fondazione settecentesca si basa su una geometria elementare e razionale, un rettangolo elaborato sui modelli delle città ideali del ‘500, con l’incrocio tra il cardo e il decumano, che vanno dalle attuali Porta Marina a Porta Navarra e da Porta Santo Spirito fino alla Collegiata di San Marco.
Molti dei materiali utilizzati per la costruzione del nuovo centro provengono dagli antichi edifici che vennero abbandonati e smantellati.
Torneo Cavalleresco di Castel Clementino e Giostra dell’anello è la tenzone, il rumore prepotente degli zoccoli dei cavalli, la vittoria. La Giostra dell’anello ha il peso di un macigno sulla rievocazione: i vincitori possono gioire, fregiarsi del cencio conquistato; agli sconfitti non resta che l’onore delle armi (a talvolta neppure quello).
Il Torneo Cavalleresco di Castel Clementino si caratterizza per la contesa del Palio, cresciuta a dismisura negli anni Settanta e consolidatasi negli ultimi tre lustri. Per un cavaliere giostrante, vincere a Servigliano equivale ad arricchire il palmares personale di un grande sigillo. Alla stregua di quelli di Foligno, Ascoli Piceno, Faenza. A rendere dura e selettiva la competizione sono le quattro tornate, caso unico nelle Giostre dove il percorso si cavalca in più di sessanta secondi.
Quattro manches sono dure e massacranti (per il binomio cavaliere-destriero), ma assicurano spettacolo nelle due ore di gara, dove l’adrenalina la fa da padrona nello stato d’animo degli spettatori. Cinque protagonisti, uno contro l’altro, intenti ad infilare dodici anelli di dimensioni a scalare di 8, 7, 6, 4.5 centimetri: ecco la Giostra dell’anello.
La pista, lunga 880 metri, è a forma di otto ed è delimitata da circa 450 bandierine colorate in legno.
Percorrendola nel tempo record di 1’02”8, significa volare a 14 metri al secondo o 50 chilometri orari. In ogni tornata i duellanti sono chiamati ad affrontare tre rettilinei, cinque piegate e tre diagonali al centro delle quali c’è il braccio porta anelli alto 213 centimetri dove vengono posizionati i ‘bersagli’. Dal 1969 al 1989 le tenzoni hanno avuto luogo nel vecchio campo de li giochi, ovvero sul rettangolo di gioco del campo sportivo “E.Settimi”.
Abili mani hanno garantito un tracciato perfetto: morbido in curva, abbastanza veloce lungo i tratti dove il berbero può sfogarsi. Il 1990, anno della XXII edizione, può essere considerato come l’inizio dell’era moderna: la Giostra cambia sede. Da allora viene disputata nel centro ippico, un impianto da diecimila posti seduti, vero fiore all’occhiello della vallata del Tenna, corredato da paddock, settore scuderia e box all’avanguardia.
I rionanti vivono la Giostra dell’anello con ansia e trepidazione. Inutile nasconderlo: godono nel veder primeggiare il proprio amato cavaliere, ma in caso contrario può bastare la resa del protagonista del rione rivale per lenire delusioni e sofferenze. Ma il Palio è anche questo: gioie e dolori sovente vanno a braccetto. Nella settimana antecedente la tenzone trovano spazio l’attesa, i pronostici, i riti scaramantici. I cavalieri giostranti hanno tre giorni a disposizione per provare cavalcata, lance, speroni e morsetti, e far adattare il destriero all’otto serviglianese.
Questo avviene il giovedì, venerdì e sabato mattina.
Nel frattempo è compito degli addetti al tifo posizionare al campo de li giochi vessilli e bandiere a mò di curva di stampo calcistico. La notte prima del grande evento in molti la passano senza chiudere occhio: chi a vegliare il cavallo (un tempo tutto ciò era più romantico…), chi a gozzovigliare nelle taverne rionali nel tentativo di propiziare la vittoria. Ma in pista, il pomeriggio susseguente, saranno loro, i cavalieri, le uniche vedette da ammirare e venerare. Il successo arriderà al più valoroso, proprio come avveniva nel medioevo.