Quando sbarcai ad Amsterdam, per il mio programma di Servizio volontario Europeo, altresì noto come SVE, ero eccitatissimo. Lo programmavo già da tempo, avevo troppa voglia di uscire dalla cappa plumbea del mio piccolo paese di provincia. Mentre giravo per Amsterdam, ripercorrevo con la mente i momenti che mi avevano condotto lì, come highlights di una partita di calcio. La mia richiesta all’ufficio. Quando ho letto l’e-mail di accettata richiesta. Le argomentazioni per tranquillizzare mia madre – che era facile trovare un volo per Amsterdam, che sarei tornato spesso o che loro sarebbero potuti venire da me facilmente, che no, non mi sarei drogato, per carità mamma, no, non avrei fumato droghe né avrei frequentato ragazzacce, che no, non avevo intenzione di nuotare nei canali della città e via ancora attraverso pericoli e rischi più o meno improbabili che solo un cuore di madre sa paventare. Il volo, l’atterraggio. E quindi lì, alla stazione principale, con la valigia a chiedere nel mio inglese scolastico, ma sicuro, dove fosse l’indirizzo della casa dove avrei dovuto alloggiare.
La casa l’avrei condivisa con Andrea, studentessa ungherese che aveva studiato anche un po’ di italiano che, pur stentato, era piacevole da ascoltare, Sasha, ucraino con la passione per le serate folli e col quale mi trovai subito in sintonia, Mehmet, dalla Turchia, capace di fumare un pacchetto a film, un po’ taciturno ma educato e infine Kristine, estone o lettone o lituana, ancora oggi, a fine esperienza non l’ho mai capito e quando sbagliavo si arrabbiava pure.
Legai in particolare con Andrea e Sasha e già dopo qualche tempo diventammo buoni compagni di serate.
Le giornate lavorative trascorrevano più o meno uguali, dovevo aver cura di una classe di bambini, o meglio, badare che la lezione delle loro maestre fosse agevolata dalla mia supervisione (bambini in vena di litigi o andare a prendere materiale didattico o altre cose così ) e nel pomeriggio aiutare Dave, che organizzava musicali o di incontro serate in uno stabile. Alle 17 finiva il lavoro e lì ci si occupava un po’ delle mansioni dell’appartamento – spesa, pulizia – o varie ed eventuali.
Il tutto era ogni giorno eccitante grazie alla continua scoperta di una vita nuova, all’estero, completamente differente da quella sonnacchiosa del mio paesello abbarbicato sopra le colline campane. Fin dall’inizio avevo cominciato a studiacchiare, non troppo impegnativamente invero, la lingua olandese, ma per tempo e necessità la cosa non funzionò troppo. Tuttavia con l’inglese ad Amsterdam si vive e si trascorrono le serate senza alcun problema, lo parlano tutti i giovani.
La città è sicuramente giovane, com’è noto. Il fine-settimana si preferiva organizzare feste in casa, un po’ per risparmiare un po’ per conoscere gente nuova sempre nell’ambito dei nostri ambienti, si caricava un tavolo di birre e cose da mangiucchiare e fino all’alba si danzava.
Oppure si andava per locali, che fortunatamente in quanto a prezzi sono decisamente alla portata media di chi vuol trascorrere una serata divertente. La città si riempie già dal tardo pomeriggio del venerdì di persone che girano per le strade, bevono una birra. La polizia c’è e sorveglia, quindi chi ha in spirito di festeggiare in maniera magari esagitata non c’è troppo spazio.
Chi pensa che sia dunque una Las Vegas europea sbaglia di grosso. Non solo i divertimenti sono sì tollerati, ma questo non significa che tutto è permesso (provate pure a rollare uno spinello fuori da un coffee-shop per testare l’efficienza olandese in fatto di controllo del territorio). La città inoltre è straordinariamente ricca di edifici di valore storico e artistico, nonché pienissima di musei, fra i quali merita senz’altro una visita quello dedicato ad Anna Frank.
L’inverno è stato particolarmente lungo e freddo e quando si dava appuntamento qualcuno si preferiva direttamente dentro qualche locale. Di qui ho compreso anche le origini della proverbiale puntualità dei popoli nordeuropei: effettivamente attendere qualcuno per più di 5 minuti a quel freddo cattivo è poco rispettoso. Ho rischiato i geloni non so quante volte, per aver sottovalutato la potenza di quel freddo. La primavera invece, gradevolissima, da una tale voglia agli olandesi di godersi parchi e spazi verdi che non appena un accenno di timido sole fa capolino fra le nuvole scappano letteralmente muniti di griglie e carne e fare pic-nic nei giardini. Con una voglia di godersi un buon tempo e le belle stagioni contagiosi, coscienti che tornerà l’inverno e il sole diventerà per molto tempo uno sconosciuto. Naturalmente lasciano i pratiche che occupano più puliti di come li hanno trovati. Un’altra civiltà.
Alla fine dell’esperienza me ne andai dalla città con la morte nel cuore, tristissimo nel dover lasciare un mondo così diverso e affascinante. Ma sull’aereo verso casa viaggiava un ragazzo diverso da quello che era giunto, credo più aperto e maturo, più tollerante. Proprio vero che non c’è miglior medicina di un viaggio.”